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I sorprendenti diorami fiamminghi di Dustin Yellin

di Luca Ferracane

Il Settecento è un secolo quanto mai affascinante, forse il più controverso della storia moderna, legato al conservatorismo eppure proiettato al futuro. In una espressione, un secolo curioso o meglio il secolo curioso per antonomasia, frizzante e contraddittorio, incoerente e luccicante, devoto e perverso. Condizioni igieniche precarie ed epidemie incurabili a parte, se fosse reale la possibilità di fare un viaggio nel tempo, senza dubbio opterei per il XVIII secolo. Quel che mi attrae particolarmente poi di questo bizzarro periodo della storia umana è il predominio del teatro, quello d’Opera soprattutto, i cui espedienti meravigliosi, scenografia in primis, ebbero in quel tempo ingegnosissima verve. La Scuola italiana influenzò inevitabilmente l’Europa intera e le pratiche sceniche del nostro Paese, considerate garanzia di spettacolarità, studiate e imitate da chiunque, trovarono infiniti seguaci. Impostazione teatrale ebbero anche altre svariate forme d’intrattenimento e non solo: basti pensare alla pratica dei diorami, preziosi ed elaborati manufatti che presentavano scene di vita quotidiana, battaglie, paesaggi, feste, eventi storici etc. rigorosamente in miniatura, incredibili balocchi con una eccezionale dovizia di particolari disquisita fattura.

Migration in Four Parts, 2017, glass, collage, acrylic, resin, steel.

Uno dei tanti abili personaggi che si dilettavano nella creazione di questi “teatrini” fu Philippe Jacques de Loutherbourg, pittore e scenografo anglo-francese, oggi pressoché caduto nell’oblio e inventore di numerosi artifici, soprattutto illuminotecnici, cui la scenografia tutta dovrebbe rendere grazie. Quando ho visto le opere di Dustin Yellin (Los Angeles, 1975), celebre artista e poliedrico performer, non potevano non balzarmi alla mente le mirabilia tardobarocche. Yellin attualmente vive e opera a New York, a Brooklyn, nel quale ha fatto fortuna e dove ha fondato Pioneer Works, centro d’arte che ha sede in un enorme magazzino industriale. In questo spazio polifunzionaleconvivono non solo artisti, ma anche scienziati, musicisti, ingegneri, informatici, scrittori, attivisti sociali. Una personalità eccentrica che opera su più livelli e i livelli, effettivamente, definiscono la pratica di Yellin, famoso per le sue “sculture” costituite da spessi pannelli di vetro tra le cui lastre trova spazio un tripudio di immagini che si fondono in scene narrative mutanti, figure umane o forme naturali isolate. Ogni strato viene disegnato in modo differente e poi poggiato su un altro strato per creare un’illusione tridimensionale di oggetti, panorami o corpi, utilizzando inchiostro, acrilico e collage.

La visione del soggetto rappresentato cambia fino a scomparire a seconda della posizione dell’osservatore. In queste bizzarre e sorprendenti opere l’artista rappresenta spesso due mondi, l’uno reale, l’altro immaginario, mescolando la realtà con l’arte, la coscienza con l’inconscio nel sottile gioco di trasparenze, in un’esplosione di colori e suggestioni e con un impianto iconografico simile a quello di Bosch, popolato ovvero da creature e personaggi immaginifici. Rappresentazioni immobili eppure di sorprendente dinamismo, visioni frenetiche, affollate atmosfere apocalittiche. Insomma, un magnifico e dettagliato caos da esplorare incantati per ore, come quando, facendo finta di perlustrare gli abissi marini, ci si ferma a osservare un acquario. Una delle ultime serie di lavori, chiamati da lui stesso “psicogeografie”, formano invece figure antropomorfe a grandezza naturale contenenti sempre migliaia di intricati ritagli di riviste e libri che ne costituiscono l’anima e la struttura. Ed è così che l’artista inventa un’altra anatomia, fittizia certamente, ma egualmente affascinante.

Astronauts Building a Rocket Under the Sea, 2017, detail.

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