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Franco Polizzi e il senso della malinconia

di Gian Mauro Sales Pandolfini

Ricordo bene quando conobbi Franco Polizzi (Scicli, 1954) nel novembre del 2001. Il vernissage di una collettiva intitolata “Paesaggi per Quasimodo” alla Galleria 61 di Palermo, dove il gallerista, Alaimo, espose non solo un altro grande maestro del Gruppo di Scicli, Piero Guccione, ma anche opere di Vignozzi, Savinio e Modica. Un brusìo di voci, un tintinnìo di bicchieri. Immerse nel vapore e nel muschio le tele del fiorentino Piero Vignozzi. Due meravigliosi scorci architettonici tuffati in una luce soffice e onirica, in cui le ombre provano a creare quei lenti passaggi atmosferici che non appartengono alla realtà. Le opere di Polizzi non mi apparivano i soliti paesaggi isolani giallo-blu, fatti di luce e distese di grano. Lui si accorse che mi attardavo a osservarle e si presentò. Inizialmente mi trovai a parlare con lui sul fastidio del contingente, utile per vendere ma nemico di una “sacra conversazione” tra persone interessate più che socialmente interessanti. Poi ci siamo allontanati dalla folla: sentivamo solo le nostre voci. La malinconia e l’inquietudine! Quali armi sofisticate abbiamo a disposizione per decifrare le cose! Il tono del nostro dialogo era fondato sul piacere reciproco dell’ascolto. Ci siamo ritrovati reclusi in uno stanzino al piano superiore di quell’accogliente Galleria del centro città che oggi non esiste più.

Un mese più tardi mi arriva a casa una sua lettera con allegato un vecchio numero di “Arte” dell’agosto 2001, contenente una sua intervista. Lì avrei potuto trovare, mi scriveva, “qualche accenno sulla malinconia, fonte per i più attenti da cui attingere per catturare la bellezza del mondo”. La vita, aggiungeva, era più un sogno misterioso che un evento reale: ecco la ragione per la quale l’uomo è inquieto e soffre. Non ne comprende il senso, si affanna a creare geometrie interpretative che lo aiutino a restituire ordine e passione alle cose. 

Vidi allora questo splendido dipinto del 1989. La parte superiore è il mare, axis mundi privilegiato, sposalizio tra aria e acqua, disturbato solo dagli accenti dispettosi della luce. Polizzi è il pittore della luce. Quella del Gruppo di Scicli, fatta di barocco abbagliante e campiture accecanti trova in lui un ulteriore canto di trionfo. La parte inferiore è la terra, la carne, il piacere dell’umidità del corpo. Un dittico che è inno agli elementi e che mi evoca subito i Dialoghi con Leucò (1947) di Pavese, quando durante la conversazione tra Achille e Patroclo, si dice ciò che è eterno: “Da ragazzi si è come immortali, si guarda e si ride”. Solo i ragazzi possono voltare le spalle al mare. Sotto il sole cocente dell’estate siciliana, quei corpi ne assorbono luce e calore, la loro pelle si fonde con la terra, si decolora, assume la tinta delle rocce su cui siedono. Il loro volto è passione ripetuta di ricordi che abitano ciascuno di noi: non importa descriverlo. Quei corpi sono già mineralizzati e più vivi e seducenti di qualsiasi sguardo ammiccante. Hanno fatto il bagno, la loro pelle riluccica, madida. Tutto è umido, vaporoso, erotico. L’immagine sembra filtrata dalle lacrime di chi ha dipinto e di chi sta osservando: sono rugiada di nostalgia che si deposita in ogni notte che attraversa la vita e che si risveglia nella gioia di un’aurora ripetuta. Sono le stesse lacrime che alimentano il tempo e il mare salato.

Franco Polizzi, Ragazzi al mare, 1989, Collezione privata.

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