di Gian Mauro Sales Pandolfini
Che l’arte figurativa si fondi sullo sguardo, credo si possa tranquillamente definirlo un truismo, una verità ovvia. Il nostro occhio è il primo filtro sul mondo e su di esso agiamo con un ulteriore schermo offerto dall’arte che è ciò che noi abbiamo guardato, ricostruito o ricreato. L’arte si fonda in sostanza su un gioco di sguardi come l’amore. Il primo input di un amore è del resto il sesso, stimolato dallo sguardo ammiccante tra due individui e preceduto magari dalla visione – anche reciproca – del dettaglio dell’altro, il seno, il sedere o, per i più romantici, gli occhi…
L’arte ha una componente mimetica, imita la realtà, la natura, a volte in modo fiammingo, perfetto. Ma possiede anche una componente demiurgica, reinventando ossia la natura in una visione nuova, intima, che è tutta dell’artista. E poi c’è la componente ludica e fantastica, che accoglie le suggestioni del mistero e del gioco, manipolazioni entrambi delle esperienze della vita.
La National Gallery di Londra custodisce una celebre opera che è il simbolo di quest’ultimo aspetto, Gli ambasciatori dell’augusto pittore tedesco Hans Holbein il Giovane.
Qui compare un fenomeno molto particolare e interessante, praticato da altri artisti del Rinascimento come Leonardo, l’anamorfosi, illusione ottica consistente nel proiettare sul piano d’interesse un oggetto deformato, la cui ricomposizione chiara e razionale al nostro sguardo si attua solo se guardato da un certo punto di vista (qui dal lato sinistro della tela osservato di sbieco) oppure con strumenti ottici appositi.
I protagonisti ritratti sono a sinistra Jean de Dinteville, apprezzato ambasciatore della corona francese a Londra, e a destra Georges de Selve, vescovo di Lavaur e ambasciatore a Venezia. Sono giovani amici, agghindati con vesti di alto rango. Il broccato di seta verde fa da sfondo a numerosi oggetti poggiati sullo scaffale che simboleggiano sia gli interessi dei due uomini del Rinascimento, sia la dialettica dell’umanità in bilico tra la tensione terrestre e quella celeste. In basso la verticalità degli ambasciatori è rotta dalla presenza di una strana figura ovoidale e deformata che si staglia, sospesa, su un elegante pavimento di marmo riccamente intarsiato. Ecco il rebus. Se lo guardiamo di sbieco appare un teschio. Si tratta di una vanitas, di un memento mori, che si fa verità oltre i limiti umani, i sensi, lo studio e persino la pittura. Un messaggio sicuramente religioso, come evoca il crocifisso d’argento che compare furtivo in alto a sinistra tra le pieghe del tendaggio, ma anche meramente laico, alludendo alla più cruda e terrifica caducità della vita.
Negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, in piena Pop Art, compare un’altra interessante tendenza, la Op Art. L’Optical Art ha illustri precedenti nel tempo che addirittura giungono sino agli antichi Greci, passando poi per le maglie di impressionisti, simbolisti, futuristi, astrattisti oBauhaus. Un esempio su tutti? Il famoso e discusso Profilo continuo dello scultore Renato Bertelli. Hommage del dinamismo futurista a Mussolini, la scultura divenne presto famosissima ed entrò in ogni casa e ufficio fascista, alludendo all’idea del Duce che tutto vede, “motore mobile” che fa il verso a Aristotele.
L’arte cinetica contemporanea annovera invece personaggi del calibro dell’ungherese Victor Vasarely, in grado di ricreare l’illusione del movimento, con un gioco di linee e curve o di quadrati e cerchi.
Ma ci sono anche le opere che si muovono davvero, grazie, per esempio, alla leggerezza dei materiali o alla loro disposizione nello spazio reale. Si pensi all’americano Alexander Calder, le cui opere, costituite in genere da lamelle metalliche e geometriche dipinte, appoggiate in equilibrio a un qualunque sostegno o sospese con fili, furono definite mobiles dallo stesso Duchamp.
Le opere di un Bruno Munari si muovono invece tramite specifici meccanismi interni. Celebre la sua Ora X in tiratura limitata. Si tratta di una superficie circolare in cui ruotano semidischi di plastica colorata e trasparente che, sovrapponendosi, generano policromie diverse alla vista. Data la complessità realizzativa, si può anche notare che l’Op Art mette in campo professionalità differenti e tra loro interagenti, che gravitano sia nell’esecuzione che nella progettazione. Munari stesso considera l’oggetto artistico destinato a tutti, alla serialità, alla riproducibilità, secondo l’idea del nostro design moderno.
Concludo questo breve excursus sull’arte visuale e cinetica con oggetti che si muovono esclusivamente interagendo con il pubblico. Penso così a Enzo Mari e alle sue combinazioni create con il movimento impresso da chi capovolge il sistema o a Gabriele De Vecchi, autore delle famose sculture da prendere a calci e che con i calci del fruitore generano sempre nuove forme continue.