Alla fine dei ruggenti anni Sessanta un etologo, passato poi alla storia per il suo esperimento, condusse un singolare quanto spietato studio su un insieme di topi innestato in un ambiente protetto da eventuali predatori e possibili malattie, fornendo loro cibo e acqua in misura illimitata. Una condizione pressoché ideale e idilliaca se non fosse che col passare del tempo la popolazione di cavie decuplicò in maniera esponenziale, consumando quasi del tutto lo spazio disponibile pur avendo ancora a disposizione risorse bastevoli per tutte le unità. Nel giro di poco, la maggior parte dei topi subì delle alterazioni comportamentali, sviluppando un’accentuata aggressività nei confronti degli altri simili e favorendo inoltre episodi di cannibalismo, abbandono della prole e così via. Dopo qualche anno la società di roditori era giunta al completo collasso, decretando da sola la propria fine.
I topolini si divoravano tra loro anzitutto per saturazione dello spazio – non delle risorse – ed eccesso di individui, condizione nella quale i “ruoli” sociali della comunità erano messi in crisi dalla sovrappopolazione. Tale lavoro fece il giro del mondo rendendo così celebre il suo artefice,John Calhoun, che ravvisò nello studio un probabile scenario cui si stava avviando la stirpe umana in pieno boom economico. Oggi siamo quasi otto miliardi sulla Terra e nel prossimo ventennio si stima che la curva di crescita non subirà alcun freno.
Questo pensiero, in verità, mi atterrisce e inquieta più di ogni altra possibile previsione pandemica, esperienza che nessuno tra noi avrebbe mai immaginato di poter vivere nel nostro modernissimo secolo smart, l’era delle imprevedibili e infinite possibilità, più che mai l’età dell’inconsistenza. Certo, noi umani non siamo topi, dalla nostra abbiamo la Ragione e perciò siamo molto peggio. Grazie a essa riusciamo ancora a non soccombere del tutto, plasmando il pianeta a nostro piacimento, per soddisfare i nostri continui, disperati bisogni. Catastrofi a parte ed epidemie, con la Ragione abbiamo inventato anche quel simpatico giochino strategico che chiamiamo guerra. I topi non possiedono questo tratto che ci caratterizza, questa qualità distintiva che è sovente adoperata per pianificare il male, per danneggiare volutamente i propri simili e per appagare smanie di prevaricazione, dominio e avidità, soprattutto quando non necessarie. Anche noi umani dovremmo, in teoria, guerreggiare per difendere uno spazio limitato nel quale vivere e in cui le risorse sono anch’esse limitate, a differenza dell’esperimento di Calhoun. Questo potrebbe fornire una giustificazione alla guerra tra gli uomini, divisi, sovrastrutturalmente, in popoli e nazioni. Parrebbe essere la salvaguardia delle risorse necessarie da cui dipende la sopravvivenza di un gruppo a generare un conflitto, che si realizza laddove il contatto con un altro gruppo limita potenzialmente la garanzia di approvvigionamento delle risorse stesse, non bastevoli per tutti, instillando quella paura che innesca lo scontro. È vero che lo spazio sul pianeta non basterà a contenere tutti noi se dovessimo continuare a moltiplicarci, e che la sovrappopolazione è un problema serio; è anche vero tuttavia che abbiamo a disposizione i mezzi per far sì che le risorse bastino ancora per ognuno. Perché il bisogno di far guerra, dunque?
Esistono gruppi di individui che non si accontentano del necessario e, bramando sempre di più hanno creato e continuano a creare uno squilibrio enorme nella distribuzione dei beni. Perché questo è l’uomo, animale straordinariamente affascinante e oscuro, volubile, capriccioso oltre l’inverosimile: violento e distruttivo per natura, cerca di sedare se stesso attraverso regole e leggi che permettano una convivenza pacifica coi propri simili e scongiurare il caos perenne. Un equilibrio sottile che la naturale indole umana tende a spezzare, in una latenza della crudeltà che è sempre pronta a tracimare alimentata dal fuoco delle paure e dell’intolleranza. Parte delle nostre angosce riguardano la serenità della vita quotidiana, che ci è data dalla possibilità di avere un lavoro, di essere curati se ci ammaliamo, di avere adeguati mezzi per l’educazione dei figli e prospettive di futuro in un ambiente sicuro. La tutela dei diritti, l’etica, la cooperazione sono mezzi che convengono a tutti, messi da parte gli istinti e le pulsioni che la civiltà artefatta riterrebbe inaccettabili. Basta osservare i bambini per rendersi conto quanto compiere il male sia davvero banale. Fa parte del nostro DNA. L’esercizio della pace, allora, è una virtù che deve essere coltivata, con pazienza e volontà, ma con la consapevolezza che ognuno di noi può – per un inaspettatissimo caso, per sopraffazione, raptus, curiosità – risvegliare quel germe della spietatezza votato al dio Marte e che alberga nei reconditi recessi di ciascuno. «Nulla è più terribile dell’uomo», è scritto nell’Antigone di Sofocle, in cui “terribile” ha la doppia valenza di temibile e meraviglioso. Soltanto se accettiamo l’inconcepibile dualità della nostra natura, come ben c’insegna la Tragedia greca, potremo riuscire a riconoscere ciò che è bene da ciò che è male. E scegliere arbitrariamente, poiché la verità di ognuno consiste nella scelta.
Tutto quel che ho scritto sinora si condensa magistralmente in uno dei lavori di Steve Sabella (Gerusalemme, 1975), artista palestinese in mostra nell’interessante collettiva Blocks, in esposizione all’Albergo delle Povere di Palermo e curato dalle due omonime Daniela Brignone – incredibile ma vero – l’una storica dell’arte e l’altra storica.
All That Remains, del 2018, è l’opera che mi ha rapito e spinto a questa riflessione. L’arte può essere strumento d’indagine della realtà, tra i più potenti e suggestivi. Ci fa riflettere, può farci indignare, provare disgusto, commuovere, turbare. In ogni caso, agisce su di noi come un medium, operando un’alterazione, alle volte mirata, della nostra percezione. E delle nostre idee o pregiudizi. Diventa specchio entro cui guardarsi, superficie nera, abisso dell’inconscio, serbatoio ignoto dove si annidano desideri e paure che non osiamo, più o meno consapevolmente, portare alla luce. E di una luce epifanica era avvolta quest’installazione costituita da un cubo trasparente contenente frammenti murari di una casa della Gerusalemme vecchia sui quali sono apposte delle foto di un’altra casa palestinese durante l’occupazione israeliana del 1948, che avrebbe portato poi alla nascita dell’attuale nazione. Sovrasta il tutto un frammento di legno proveniente dai binari del campo di concentramento di Auschwitz, perpendicolare alla faccia superiore del cubo. Un accostamento che spiazza e che lascia a una contemplazione silente in cui troppi pensieri vagano come impazziti nella mente.
Capisci forse che la storia dell’uomo in fondo non ha mai avuto davvero vincitori o vinti e che ogni mattone della nostra tanto progredita civiltà continua a essere fatto di lacrime e sperma, sangue e sudore. Ho avuto di nuovo la sensazione, al cospetto di quest’opera, di essere consapevole che la speranza è realmente un’illusione, l’ultimo dei mali contenuti nel mitico vaso di Pandora. Lo stillicidio di un’agonia cominciata col nostro apparire sulla Terra, alla quale nessuno è in grado di porre fine. Se solo potessimo dimenticare unicamente il male ricevuto, impedendogli di influenzare il nostro agire, allora forse riusciremmo a vivere felici, ignorando il rancore e la vendetta. Ma la sofferenza ci segna inevitabilmente e per sempre, più d’ogni altra cosa, costringendoci, nostro malgrado, a crescere e imparare, a conoscere il mondo. È solo così che, per contrasto, ogni microscopico gesto d’amore può trasformarsi nell’infinito potere di un miracolo.