È matematicamente impossibile non avere appiccicati addosso, attraversando la spiaggia dopo un tuffo, sgraditi granelli di sabbia. Crescendo, ho preferito allontanarmi dalle spiagge non tanto per loro, quanto per una incrementata misantropia e per godermi luoghi marini rocciosi meno accessibili ai più. Sfortunatamente, però, l’essere umano – quello della peggior specie – non si lascia scoraggiare, appestando ormai in massa ogni angolo del globo terracqueo. Effettivamente è più fastidiosa la gente di un certo tipo che i granelli di sabbia nel costume o fra le dita dei piedi, al massimo efficaci scrub. Nonostante l’umanità non posso fare a meno del mare quando mi sale quella improvvisa voglia di salsedine, optando dunque da anni per le scogliere. Queste mi regalano inoltre una varietà faunistica che manca in prossimità delle spiagge, dai timidissimi granchi ai curiosissimi pesci attirati dal pallore del mio incarnato che non si espone ai raggi del sole se non dopo le 16:00, pena, ustione garantita. Quando ero più giovane la fauna umana non mi tediava, neppure nelle sue più pittoresche e infernali manifestazioni. Forse perché attratto dai molteplici stimoli visivi e sensoriali dell’ambiente marino che rendevano il chiasso e l’inciviltà di alcuni bagnanti un sottofondo tollerabile.
Del resto, me ne stavo la maggior parte del tempo in acqua, come ho scritto in un precedente articolo, uscendo dai flutti solo per dilettarmi nella costruzione di qualche castello sulla riva o, epifania di bontà, divorare con cupidigia estatica una delle enormi ciambelle fritte che un piccolo bar della spiaggia vendeva. Ecco, in una dimensione infantile, tutto questo costituiva un ciclico ecosistema nel quale i ritmi della giornata erano regolati dalla posizione mutevole del sole, dal bagno e dall’immancabile merenda – si sa, il mare fa venire fame – alla quale seguiva la tediosa attesa per scongiurare il pericolo di una temutissima congestione. Menomale che facevo portare a mia madre qualche libro e, rigorosamente riparato sotto l’ombrellone, mi mettevo a leggere, aspettando di potermi immergere di nuovo fino a prima del tramonto. Certo, come ho già detto, oggi fuggo a gambe levate questa dimensione, eppure, guardando adesso dall’esterno e ripensando a quei momenti, mi rendo conto che sono stati istanti di spensierata felicità. La spiaggia crea quella sorta di comunità provvisoria che smorza per un attimo molte distinzioni, in cui rimaniamo, davanti agli altri, più nudi che vestiti.
Questa è una cosa sulla quale ho sempre riflettuto. Cos’è che distingue l’intimo da un costume da bagno? Il tessuto, sì, forse anche i colori, ma non sempre. Mai capirò perché molti si scandalizzano se, in altre situazioni, ci si mostra in mutande. Al mare non siamo tutti in mutande di altra foggia? Sulla spiaggia, appunto, siamo più disinibiti, mostrando imperfezioni e segreti che il vestiario normalmente nasconde. E poi le fantasie degli ombrelloni parasole – io ho sempre prediletto quelli a righe, dal gusto un po’ rétro – quelle bizzarre casette in legno, quando c’erano, chiamate cabine o capanne, i giochi sulla riva, il cocco e la mitica pannocchia di mais bollita. Se la spiaggia avesse uno spirito del luogo allora credo incarnerebbe tutto questo.
Sally West (Australia, 1971) ha reso con la pittura quel che ho appena espresso in parole, creando tele che mi divertono parecchio. Con stesure di colore assai corpose, applicate con la spatola, genera quasi dei diorami tridimensionali immortalando le grandi spiagge australiane, la cui superficie, catturata a volo d’uccello, è disseminata di molti bagnanti con relativi arsenali policromi. Tutto è vissuto in questi spazi di colore, anche l’acqua dell’oceano che segue la corrente, producendo onde solcate da chiazze che evocano la moltitudine di surfisti che affollano i mari del continente australiano. Se ci si dovesse avvicinare troppo al dipinto l’occhio rimarrebbe deluso da una parte, avendo svelato l’inganno pittorico costituito dal semplice accostamento di macchie colorate e da qualche lieve ombra, dipinta anch’essa o naturalmente prodotta dalla corposa massa cromatica, dall’altra parte invece ci si rende conto che è proprio questo evidente gioco ottico a rendere interessante l’opera, stuzzicando il cervello, attraverso tinte calde e tenui, che istintivamente ricostruisce una realtà che l’artista si limita a suggerire in maniera vivace.Soffermandomi di fronte ad uno dei suoi dipinti, mi viene quasi voglia di allungare la mano, per sentire sulla pelle la spuma bianca di quelle onde immobili, mentre la mente immagina e riproduce magicamente l’odore di sale, misto a sudore e crema solare. Ed è subito estate.